Le trattorie: luoghi storici di cucina italiana

Mi piace andare al ristorante. Evito accuratamente i fast food ma sono anche un po’ diffidente nei confronti di certi ristoranti che propongono piatti troppo creativi, complicati, con abbinamenti fantasiosi ed eccentrici. Anche in questo caso “la virtù sta nel mezzo”, come diceva Aristotele: mi piace il locale curato e gradevole, dove gustare la cucina tradizionale, magari con un tocco di innovazione ma sempre nel rispetto della cultura gastronomica che ha reso l’Italia un’eccellenza nel mondo.

Ci sono trattorie che offrono piatti molto gustosi e che danno davvero soddisfazione al palato. Apprezzo l’eleganza della tavola e la cortesia del personale, ma non mi scandalizzo se in certe locande di campagna o nei rifugi in alta quota si presenta la cuoca con il grembiule ai fianchi che ad alta voce elenca i piatti del giorno. Se la cucina è buona, anche questa ospitalità schietta è molto gradita. Andando alla ricerca di informazioni sulla storia della cucina italiana, scopro che anche in passato i viaggiatori apprezzavano le nostre osterie, perché vi trovavano i sapori autentici e le atmosfere dell’Italia più simpatica e spontanea.

Vi ho già parlato della nascita dei ristoranti (leggi qui). A partire dall’Ottocento si comincia a viaggiare sempre più spesso per lavoro, per turismo, per interesse culturale e artistico; si consolida la tradizione di pranzare la domenica al ristorante con la famiglia e con gli amici, alla ricerca di un’evasione e anche per mangiare qualcosa di diverso dal solito. I giovanotti invitano a pranzo le fanciulle: le tavole dei ristoranti diventano luogo di corteggiamento galante, al lume di candela, con un’atmosfera che favorisce la conversazione e la reciproca conoscenza, guardandosi negli occhi e alzando i calici in un brindisi. Molti locali diventano luoghi di incontro abituale per intellettuali e artisti, studenti e politici, che intorno alla tavola si scambiano informazioni e discutono in modo appassionato. Tra un bicchiere di vino e un piatto di tagliatelle, un caffè e una fetta di torta, c’è sempre tanta voglia di parlare e ascoltare. La buona tavola è il luogo ideale per conversare e consolidare legami, per costruire progetti o anche solo per trovare pace e relax.

Pellegrino Artusi, quando nel suo libro La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene presenta la ricetta del Riso alla cacciatora, racconta di una gita fatta in gioventù in compagnia di un negoziante di cavalli. Giunti stanchi ed affamati ad una locanda, chiedono all’ostessa che cosa c’è da mangiare e quella propone appunto quel piatto, avendo appena «tirato il collo a diversi polli. L’ostessa si mise all’opera ed io lì fermo ed attento a vedere come faceva a improvvisar questi risi». Sembra di vederlo, tutto incuriosito nell’ammirare il lavoro in cucina della locandiera (Vi ricordate chi è Pellegrino Artusi? Se volete saperne di più, leggete il mio post).

Anche gli stranieri spesso preferiscono queste trattorie perché vi trovano l’Italia più schietta. Nel 1910 il tedesco Hans Barth pubblica una guida: Osterie. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri. Non è solo un elenco di locali, piatti e vini, ma è la descrizione colorita e simpatica degli ambienti, dei gestori, delle loro mogli e figlie. Sora Adele è corpulenta, sora Ermelinda «una torre di capelli neri come l’ala del corvo, un viso ridente, due occhi ammaliatori», sor Peppe: «testa cesarea, profondi occhi bovini». Ecco cosa ha mangiato a Roma: fettuccine e saltimbocca, trippa al sugo, coda alla vaccinara e stufato, bevendo vino dei Castelli romani. Insomma, un inno alla tradizione imperitura della cucina regionale.

Il giornalista Paolo Monelli e il vignettista Giuseppe Novello negli Anni Trenta del Novecento vengono inviati in giro per l’Italia dal giornale La Gazzetta del popolo di Torino, e dal loro tour ne uscirà un libro, Il ghiottone errante, (ripubblicato di recente da Slow Food Editore)che racconta il loro viaggio affascinante tra i prodotti, i piatti, gli osti, le cuoche, le tradizioni e i vini del nostro meraviglioso Paese. Ecco come descrivono il cuoco Pasquale Campolmi detto il Troja a Firenze: «Un fisico da Mangiafuoco, grande e massiccio, la sua ombra enorme aduggia tavole intiere a cui siedono gli sbigottiti avventori. Ha un testone rapato da lottatore». Il soprannome gli è stato dato dai fiorentini per il suo grembiule sempre sporco e unto, con il quale fieramente si presenta ai clienti. La sua cucina propone crostini caldi, penne al sugo, pollo alla diavola, costata di vitellone e un fiasco di vino «della Rufina». La Guida delle Trattorie d’Italia del 1939 così lo recensisce: «Campolmi detto il Troja è la gargotta (N.d.A.: osteria) in voga a Firenze. Accanto all’operaio vi trovi il forestiero di grido e la damina aristocratica. Tono rustico, ostentatamente popolaresco, ma ottima cucina. Tutte le specialità fiorentine vi sono curate con grande amore e con rara abilità. Ottimi i vini di Pomino e del Chianti».

I grandi cambiamenti sociali spingono quindi le trattorie, soprattutto quelle cittadine, a dare un servizio di qualità e un’offerta varia e soddisfacente, per venire incontro alle nuove esigenze di un mondo che cambia. Nelle città hanno la fortuna di attingere da un mercato molto fornito di tutto e possono quindi variare il menu; quelle di campagna servono quello che riescono a trovare, utilizzando i prodotti del territorio circostante. Oggi la chiameremmo pomposamente “cucina a chilometro zero”. Se nel ristorante di lusso possono andare solo quelli che se lo possono permettere, nelle trattorie non di rado si incontrano anche avventori che vengono dalle classi agiate ma che preferiscono comunque la cucina regionale, perché alla qualità del servizio antepongono il piacere di piatti tipici. Pellegrino Artusi è un esempio in tal senso e ha fatto scuola; come abbiamo visto, anche le dame aristocratiche non disdegnano di frequentare trattorie ruspanti. Dobbiamo essere grati a questa ampia offerta nella ristorazione, perché così la cucina regionale italiana si è tramandata di generazione in generazione e non abbiamo perso i sapori di una volta.

Per concludere, poiché la tavola e la cucina sono anche un’ispirazione per gli artisti, vi mostro due quadri che illustrano bene quanto vi ho raccontato. Giuseppe De Nittis dipinge questo “Pranzo a Posillipo” (1879): un gruppo di commensali è riunito intorno ad un grande tavolo coperto da una tovaglia bianca, sulla quale sono distribuite le stoviglie e una grande composizione floreale. Gli avventori conversano amabilmente in attesa del pranzo. Dietro di loro alcuni musicisti imbracciano le chitarre e cantano. Sullo sfondo, il golfo di Napoli. Che atmosfera di pace e bellezza!

Carl Bloch è un pittore danese che ha trascorso molto tempo in Italia, dove ha tratto ispirazione per alcuni suoi quadri. “In una osteria romana sembra quasi una foto scattata da un paparazzo: il giovane guarda chi lo sta immortalando con fare minaccioso, seccato che qualcuno stia guardando le graziose fanciulle con le quali sta pranzando, che fingono di abbassare lo sguardo con pudore ma sorridono con un poco di malizia, liete di essere ammirate nella loro bellezza. Dal loro abbigliamento si capisce che sono dei popolani, ma dietro a loro ci sono signori molto eleganti, a conferma di quanto fosse variegata la clientela di queste osterie.

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