Uno spot pubblicitario reclamizza una barretta, presentata come adeguato sostitutivo di un pasto completo: si vede una giovane donna, allegra e sorridente, che la sgranocchia in ufficio davanti al pc mentre la voce fuori campo, oltre ai declamati vantaggi nutrizionali, ricorda che grazie a quel prodotto “si risparmia tempo”. Certamente la donna sarà felicissima di non staccare nemmeno cinque minuti dalla sua postazione di lavoro o di studio, di restare inchiodata lì a ingerire quella terribile barretta invece di alzarsi e mangiare un cibo sicuramente più soddisfacente, facendo quattro chiacchiere con i colleghi.
Due stili di vita diversi: quello improntato all’efficientismo e quello che tiene nella dovuta attenzione non solo il piacere della tavola ma anche quello delle relazioni umane, ricordandoci che non siamo macchine al servizio della produzione ma siamo esseri umani. Purtroppo, la cultura del profitto detta le regole: un sondaggio realizzato negli USA rileva che molti manager ritengono che il lavoratore che si ferma per la pausa pranzo sia meno produttivo e molti dipendenti temono di essere giudicati male dai propri capi se interrompono il lavoro e dedicano troppo tempo al pasto.

Credo che anche in diverse realtà aziendali della nostra vecchia Europa l’atteggiamento non sia molto diverso. La cultura della tavola dei paesi mediterranei (non a caso quelli che sono figli di una cultura cattolica) permette però il mantenimento di alcune buone abitudini. I contratti collettivi di lavoro impongono il rispetto della pausa pranzo, ma è il buon senso a far comprendere che ci sono dei vantaggi anche per l’azienda e la produttività. La pausa consente di ricaricare le energie, non solo consumando un buon pasto ma anche rilassandosi, beneficando di un riposo fisico e mentale, riducendo lo stress magari con una bella passeggiata, permettendo così al lavoratore di riprendere il lavoro pomeridiano con maggiore concentrazione. Inoltre, costruire con i colleghi un rapporto conviviale favorisce quella socializzazione che crea un ambiente di lavoro più armonioso e rafforza il rapporto di squadra. In Spagna ci si concede addirittura una siesta ma si lavora poi fino a tarda sera. Un sondaggio del 2019 rivela che il 39 % degli italiani mangia a casa, grazie al fatto che la maggior parte della nostra popolazione vive nei paesi e in piccoli centri urbani. Chi mangia fuori casa va in mensa o al bar, pochi mangiano alla scrivania e solo il 5 % dichiara di consumare qualcosa al volo senza interrompere il lavoro. 8 italiani su 10 considerano la pausa pranzo un momento irrinunciabile della giornata e le dedicano almeno un’ora di tempo.

Negli ultimi anni si è accresciuta la moda di queste barrette sostitutive o dei cibi in polvere o liquidi. All’inizio la loro diffusione era incentrata sui vantaggi dietetici e dimagranti, ora si punta anche sul risparmio di tempo: si dedicano solo tre minuti al pasto grazie a snack o beveroni più o meno gradevoli che consentono di assumere il fabbisogno nutritivo quotidiano. La cucina e il piacere della tavola sono considerati una perdita di tempo. Il giornale americano New Yorker ha dedicato un articolo a questo fenomeno intitolandolo, in modo a mio parere molto azzeccato, “The end of food”.

In questo contesto in cui si confondono salutismo ed efficientismo, non ci può essere posto per una sana ricreazione, un tempo, anche breve, dedicato al relax, alla distrazione, alla convivialità, al recupero fisico e mentale delle energie: il business deve essere al primo posto, anzi deve essere l’unico pensiero. Non meravigliamoci poi se la società si riempie di depressi, ansiosi, stressati. I grandi magnati dell’industria e delle nuove tecnologie sembrano in linea con queste tendenze: un tempo chi era al top della società ostentava il proprio potere con grandi banchetti innaffiati da fiumi di champagne, oggi leggiamo che Bill Gates beve Coca Cola Diet e adora i cheeseburger. Anche Steve Jobs aveva abitudini alimentari bizzarre, non dava importanza al cibo, per certi periodi diventava fruttariano oppure digiunava e questo, a suo dire, sviluppava sentimenti di euforia ed estasi. Manifestare distacco nei confronti del cibo, in una sorta di “ascetismo laico”, sembra essere quasi un obbligo morale, dimostrazione di intelligenza e genialità, mentre sedersi a tavola per una conversazione davanti ad una pietanza rischia di essere percepito come politicamente scorretto, sintomo di debolezza e pigrizia.
Si può comprendere la scelta di chi mangia in fretta qualcosa in ufficio per poter così concludere la giornata di lavoro in un orario ragionevole, arrivare a casa non troppo tardi per dedicare tempo prezioso alla propria famiglia, agli interessi culturali, ad attività di volontariato, a preparare una buona cenetta per i propri cari. Resistiamo invece strenuamente contro il degrado antropologico e sociale che ci vorrebbe trasformare in asceti completamente dediti alla causa del lavoro e del successo che considerano il riposo e la convivialità una perdita di tempo.