di Andrea Arnaldi
Da bambino non capivo perché la mia nonna materna, a differenza di quella paterna che si chiamava con il più soave e tradizionale dei nomi, Maria, si chiamasse Desdemona. Ma che nome è Desdemona? Doveva essere l’unica donna sulla terra a chiamarsi così, pensavo. La realtà, a dirla tutta, era ancora più contorta perché, quando agli esordi del XX secolo suo padre Giulio si presentò allo sportello dello stato civile per denunciare la nascita della bambina, quello stordito di impiegato non comprese il nome e trascrisse un improbabile “Desdemola”, condannandola ad un doppio nome: quello ufficiale da riportare sui documenti e quello che realmente corrispondeva alla volontà dei suoi genitori.
Solo quando divenni grandicello mi fu spiegata la genesi del nome: il bisnonno, come molti italiani della seconda metà dell’Ottocento, era un appassionato del melodramma e soprattutto un fan (come avremmo detto noi oggi) della star indiscussa di quel tempo, Giuseppe Verdi. Ebbe così l’idea, allorquando arrivarono figli, di battezzarli con nomi inequivocabilmente verdiani. Iniziò nel 1903 con Desdemona, che nacque a Torre del Lago, e proseguì due anni dopo con Otello, per chiudere poi nel 1908 con un più “normale” Giuseppe (il nome del Maestro, appunto).
Il melodramma era la vera musica popolare, seguitissima e amata dalla gente, e anche a quel tempo la passione per la musica era contagiosa e coinvolgeva intere famiglie e gruppi di amici, suscitava club e circoli di appassionati, fungeva da catalizzatore di feste, serate, scampagnate, oltre ad attirare nei teatri della Penisola migliaia di competenti musicofili.
Il bisnonno Giulio, per quanto posso sapere io che non ho potuto conoscerlo, aveva almeno altre tre caratteristiche: era toscano, della provincia pisana, amava la caccia e soprattutto la buona cucina. Melodramma, caccia e cucina richiamano, quasi di necessità, l’idea del gruppo con cui condividere il tempo libero, ascoltare le nuove composizioni e discuterne animatamente come solo i toscani sanno fare, alternare una battuta di caccia ad una colossale mangiata, fare baldoria fino a tarda ora cantando, magari dopo avere inumidito l’ugola con qualche fiasco di Chianti, le più belle arie d’opera.
E di amici con cui condividere le sue passioni, Giulio, ne aveva tanti. Uno in particolare spiccava in quella rumorosa compagnia e ospitava talvolta il gruppo nella sua casa di Torre del Lago: Giacomo Puccini.

Da Puccini musica e allegria erano di casa. Grande ammiratore anch’egli del Maestro di Busseto, il musicista lucchese proponeva agli amici l’ascolto di Verdi insieme a quello delle nuove composizioni che egli stesso andava producendo in quegli anni a cavallo tra XIX e XX secolo.
La biografia di Puccini racconta che sul finire dell’Ottocento, mentre stava lavorando alla stesura della Bohème, acquistò insieme ad alcuni amici una taverna per trasformarla in un circolo che fu poi battezzato “Club La Bohème“.
Non so dire se il buon bisnonno Giulio facesse parte di questo club, ma mi piace pensare che sia proprio così. E mi immagino questo rumoroso gruppo votato alla causa della baldoria mentre redige, tra una risata ed un bicchiere di rosso, gli otto articoli dello statuto del nuovo Circolo:
1) I soci, fedeli interpreti dello spirito onde il club è stato fondato, giurano di bere bene e mangiare meglio.
2) Ammusoniti, pedanti, stomachi deboli, poveri di spirito, schizzinosi e altri disgraziati del genere, non sono ammessi o vengono cacciati a furore di soci.
3) Il Presidente funge da conciliatore, ma s’incarica d’ostacolare il cassiere nella riscossione delle quote sociali.
4) Il cassiere ha facoltà di fuggire con la cassa.
5) L’illuminazione del locale è fatta con lampada a petrolio. Mancando il combustibile servono i “moccoli” dei soci.
6) Sono severamente proibiti tutti i giochi leciti.
7) È vietato il silenzio.
8) La saggezza non è ammessa neppure in via eccezionale.
E allora, caro bisnonno, in alto i calici: mi unisco virtualmente a questa combriccola per un brindisi accompagnato dalle note dell’immortale Maestro “sor Giacomo” e con un tenero ricordo di nonna Desdemona (e di nonno Antonio detto Giulio, naturalmente).
(Nella foto: Giacomo Puccini, al centro, si ristora con gli amici dopo una battuta di caccia. Dal volume di Maurizio Sessa “Andrò nelle Maremme”. Puccini a caccia tra Bolgheri e Capalbio, nelle lettere inedite a Giuseppe della Gherardesca e Pietro Antinori. Maria Pacini Fazzi editori).