I fast food scelgono la qualità italiana: è credibile o fuorviante?

Mi ricordo ancora quando McDonald’s aprì la sua prima sede in Italia, a Bolzano, nella centralissima Piazza Walter. Era l’ottobre 1985. Ma il vero scandalo fu l’apertura del secondo locale, l’anno successivo, in Piazza di Spagna a Roma, nel cuore della Città Eterna. L’evento scatenò una scia di polemiche, si gridò al sacrilegio per quello che sembrava uno schiaffo alla nostra cultura del cibo. Naturalmente il fast food fece il pienone e i locali della catena si sono a mano a mano moltiplicati su tutto il territorio nazionale. Oggi sono 720, con 1,2 milioni di clienti al giorno. Poi sono arrivati Burger King, KFC, il cosiddetto “pollo fritto del Colonnello”, e altre insegne che ormai, piaccia o no, fanno parte della nostra offerta gastronomica.

La cultura del fast food si scontra ancora oggi con quella tradizionale. Siamo di fronte ad una offerta standard di hamburger e di altri prodotti di contorno, sempre uguali a sé stessi, serviti ad un bancone in contenitori usa e getta, su vassoi con i quali il cliente va a sedersi ai tavoli messi a disposizione, a meno che non voglia portare tutto a casa, con la formula del take away. C’è il vantaggio della velocità del consumo (appunto, fast food) e del costo contenuto, che rende questo sistema di ristorazione molto apprezzato dai giovani e in genere da chi vuole mangiare senza spendere troppo. Niente a che vedere con la ristorazione tradizionale. Ricordiamo peraltro che, se l’obiettivo è mangiare velocemente spendendo poco, la cultura dello street food è diffusa da noi da tempo immemorabile: pensiamo al gelato da passeggio, al trancio di pizza, all’arancino (o arancina?) di riso della Sicilia, al supplì romano, al panino col lampredotto a Firenze, ai “cicchetti” veneziani. Lo stile McDonald’s suscita reazioni sia per il contesto piuttosto grossolano e standardizzato sia perché si ritiene che questo tipo di locali serva cibo di scarsa qualità.

Facciamo un po’ di storia: Maurice e Richard McDonald aprono in California nel 1937 un locale, lungo la Route 66, dove offrono hot dog o hamburger tra due fette di pane. Nel 1940 si spostano a Los Angeles, metropoli in piena espansione, dove aprono il primo drive-in: l’hamburger viene servito al cliente direttamente dal finestrino dell’auto. Nel 1954 fondano la McDonals’s System Inc. che pianifica l’apertura di ristoranti in tutta la nazione, tutti uguali nell’arredamento, nei prodotti, nelle ricette, nel servizio. La forza lavoro è sottopagata, anche perché spesso è giovane e senza particolari qualifiche (di cui non c’è bisogno, per quel tipo di cucina). La mascotte del marchio, il clown Ronald, è conosciuto da tutti e un sondaggio negli Stati Uniti certifica che è secondo per celebrità solo a Babbo Natale. Dal 1967 comincia l’espansione mondiale: oggi si contano circa 36.000 locali nel pianeta.

Da qualche tempo la ritrovata attenzione nei confronti della sana alimentazione spinge McDonald’s in Italia a tranquillizzare i clienti con comunicati stampa e campagne pubblicitarie che annunciano accordi con primarie associazioni di categoria del mondo agricolo, come Coldiretti, e con famosi chef stellati, star delle TV, grazie ai quali viene garantito l’utilizzo di carne di qualità, di filiera garantita, sostenibile, lavorata con ricette accurate. L’obiettivo è quello di convincere il potenziale avventore che il noto hamburger americano è in realtà un piatto molto gourmet, in stile italiano e soprattutto sano perché vengono utilizzate materie prime d’eccellenza, grazie all’utilizzo anche di ingredienti DOP e IGP. Allora possiamo stare tranquilli? Non ne è assolutamente convinto Slow Food, l’associazione fondata da Carlo Petrini per difendere ben altra cultura della tavola, secondo cui questo messaggio «non può essere presentato come operazione culturale e sociale che conduce verso l’eccellenza, la valorizzazione della biodiversità e del Made in Italy». La nostra cucina è apprezzata nel mondo, ed è anche molto sana, perché è fondata su saperi artigianali e competenze secolari che hanno le loro radici nei piccoli produttori e nei cuochi che realizzano piatti molto gustosi ma anche con attenzione alla qualità. È caratterizzata dal piacere dello stare a tavola rispettando la bellezza dell’apparecchiatura, l’attenzione umana e il rapporto interpersonale unico e irripetibile con ogni ristorante o trattoria. Nulla a che vedere con la standardizzazione di cui è portatrice la cultura dei fast food. E poi non basta dire che la carne proviene da un’azienda agricola italiana che alleva gli animali in modo sano e sostenibile, che vengono utilizzati il provolone della Valpadana, lo speck dell’Alto Adige, il pomodoro di Pachino e l’aceto balsamico di Modena. Se il tutto viene infilato nel panino, coperto di salse iper-processate, accompagnato da bevande zuccherate e patatine fritte (con quale olio?), anche la materia prima d’eccellenza perde tutto il suo valore. Slow food mette anche in evidenza il problema dell’obesità infantile, dei disturbi alimentari che vengono purtroppo veicolati anche da queste abitudini sbagliate. In conclusione, secondo Slow Food parlare di tutela e promozione del Made in Italy in connessione alle catene fast food è fuorviante, poiché siamo molto lontani dalla dieta mediterranea, che è non solo buona ma anche sana.

Che cosa pensare di questa polemica? Da un lato, se anche un gigante come McDonald’s avverte una certa pressione culturale che induce a utilizzare materie prime di qualità, non si può che essere contenti. Dall’altro, credo che non basti una pure apprezzabile ricerca di miglioramento degli standard qualitativi delle materie prime, un po’ di restyling e un buon marketing per trasformare i fast food in luoghi che possano definirsi di buona qualità gastronomica, dando a questo concetto una accezione ampia che compendia la qualità dei cibi e delle tecniche di preparazione con la qualità degli ambienti, la cura del servizio, l’occasione di socialità che rendono davvero ricca e completa l’esperienza peculiarmente umana del “nutrirsi”. Ritengo che la nostra cultura della tavola sia decisamente qualcosa di più ampio e completo e che debba essere difesa, anche da narrazioni che rischiano di essere ingannevoli.

 

 

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