Quando ho deciso di imparare a cucinare ero un po’ preoccupata e ansiosa. Mi sono lanciata nell’impresa praticamente da autodidatta, consultando Il cucchiaio d’argento, Bibbia della cucina italiana, e nelle ricette c’era quasi sempre un ingrediente del quale non si diceva la dose precisa ma c’era scritto q.b. Appunto: quanto basta. Per questo ho sorriso allo scambio di battute tra i due protagonisti di questo film a proposito della preoccupazione di fronte al q.b. Perché nella vita non tutto è chiaro e pianificato dagli altri, c’è un momento nel quale devo affrontare quello spazio di libertà, devo trovare la misura giusta, la quantità necessaria, né troppo né poco. Ancora una volta, la cucina è metafora della vita.
Il film si gioca tutto nel rapporto tra Arturo, chef talentuoso ma con un problema nel controllare la sua aggressività, e Guido, un ragazzo con la sindrome di Asperger. Arturo è appena uscito di prigione e finisce di scontare la pena ai servizi sociali insegnando a cucinare ad un gruppo di ragazzi problematici tra i quali c’è proprio Guido, che dimostra grande talento ai fornelli e vuole partecipare ad un concorso culinario. Tra i due personaggi si instaura un legame che diventerà fruttuoso per entrambi, portandoli a cambiare positivamente il proprio destino. La partecipazione al concorso li porta a partire insieme, a vivere varie avventure, come nei più classici “road movie”, dove il viaggio dei due protagonisti diventa percorso esistenziale.
Ancora una volta si mette alla berlina il mondo degli chef più o meno stellati che cercano attenzione mediatica e che non esitano a fare lo sgambetto ai colleghi per raggiungere il successo. Ma soprattutto vi è la critica alla cucina troppo ricercata che cerca il sensazionalismo, sintetizzata dalla ottima la battuta che fa da leit motiv al film: “Il mondo ha più bisogno di un perfetto spaghetto al pomodoro che di un branzino al cioccolato”.
Guido e Arturo, per motivi diversi, hanno tutti e due una difficoltà a rapportarsi con gli altri, hanno alle spalle delusioni familiari: toccante la scena al cimitero, davanti alla tomba del padre di Arturo, dove i due protagonisti si raccontano la delusione per avere avuto entrambi difficoltà a relazionarsi con il padre. Impareranno insieme a trovare una dimensione della vita più leggera, più equilibrata, dove la cucina è piacere e passione e non ricerca esagerata del successo ad ogni costo e fonte di stress. Anche la vecchia auto sgangherata sulla quale compiono il loro viaggio è icona del ritorno ad una semplicità che diventa la chiave per trovare la strada verso la felicità.
Il racconto scorre piacevole con una leggerezza che è solo apparente, strappando sorrisi e qualche lacrima di commozione, tra splendidi panorami delle colline toscane e assaggi di ribollita. Se c’è una difficoltà relazionale diagnosticata, come nel caso di Guido, il film sembra dire che tutti in un modo o nell’altro abbiamo qualche difficoltà a gestire i rapporti interpersonali. Arturo trova il q.b. nella sua vita imparando a controllare la sua aggressività e abbandonando la ricerca spasmodica di un successo che gli stava rovinando la vita. Guido trova il suo q.b. vincendo la mania di meticolosa pianificazione e affrontando momenti di improvvisazione. In ogni caso, non è da soli che troviamo la soluzione: abbiamo sempre bisogno di un altro che ci stia accanto e ci accompagni nel cammino della vita.
“Quanto basta” – 2018 – Regia di Francesco Falaschi – con Vinicio Marchioni e Luigi Fedele.
Grazie, Susanna. Con garbo e delicatezza, hai segnalato un film che cercherò di vedere, ma soprattutto hai fatto una riflessione su quello spazio di libertà che talvolta fa tremare i polsi.
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Grazie a te Maria Teresa. E’ bello vedere film gradevoli ma che fanno pensare. E anche la cucina è spesso fonte di riflessioni sulla nostra vita. Ciao!
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