Cari amici del blog, è stata ritrovata recentemente una lettera, che viene attribuita ad un monaco benedettino francese del XVII secolo. Gli storici la stanno esaminando accuratamente per verificarne l’autenticità. Ma nel frattempo, la vorrei condividere con voi.
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Abbazia di Saint-Pierre, Hautvillers, settembre 1715
Cari confratelli, sento che la candela della mia vita si sta lentamente spegnendo. 76 anni sono molti, ben oltre la media, in questi tempi duri e faticosi. Ringrazio il buon Dio per il dono di questa lunga vita. Avevo 17 anni quando entrai nell’abbazia benedettina di Saint-Vanne, nel nord della nostra amata Francia, figlia primogenita della Chiesa, e lì mi dedicai con costanza alla preghiera, allo studio teologico e, secondo quanto previsto dalla Regola del nostro padre Benedetto, anche al lavoro nei campi. Tredici anni dopo fui mandato in questa abbazia, collocata accanto ad un grazioso villaggio nei pressi di Reims, e vi ho sempre svolto il ruolo di cellario, così come deciso dal nostro padre Abate.
Al mio arrivo, come i più anziani di voi sanno, l’abbazia era in grande difficoltà: per troppo tempo i terreni erano stati trascurati, le vigne abbandonate o coltivate con poca sapienza, i torchi ricevevano grappoli di scarsa qualità. A causa di questa indigenza, non riuscivamo a svolgere i nostri doveri di carità verso i poveri, i malati, i pellegrini che si dirigevano a Roma o a Mont-Saint-Michel e bussavano alla nostra porta chiedendo ospitalità e sollievo dalla fatica. Ho pregato Dio che mi desse la forza per svolgere adeguatamente l’incarico ricevuto e mi sono rimboccato le maniche. Ora et labora. I nostri terreni erano in grado di essere ben più fruttuosi: ho selezionato i vitigni migliori, preferendo il Pinot Nero allo Chardonnay; ho studiato le tecniche di vinificazione per ottenere quel vino spumeggiante che, come si legge nel Libro del Siracide, “allieta il cuore dell’uomo”. Ho anche consigliato l’uso del tappo di sughero, che consente al meglio la chiusura della bottiglia e la conservazione nel tempo di quel prezioso nettare. Ho scritto tutto nei miei quaderni, nei miei appunti: cari confratelli, fatene l’uso che riterrete più opportuno.
L’abbazia, ringraziamo Dio per questo, è stata risanata, è tornata ad essere un punto di riferimento per la regione dello Champagne, un porto sicuro per chi chiede aiuto, un sollievo per il corpo e per l’anima dei cristiani che bussano alla nostra porta.
Mi è stato riferito che le nostre bottiglie vengono stappate nei castelli. Un vino per i Re e le Regine, raccontano, eppure è fatto da noi umili monaci, con l’unico intento di sostentarci col lavoro delle nostre mani, di operare in armonia con la natura e i suoi doni, di realizzare quella bevanda frutto della vite e del lavoro dell’uomo che sull’altare eucaristico raggiunge il suo apice divenendo il sangue di Cristo.
Qualcuno sussurra che vogliono fare una statua con la mia effigie, da porre davanti alla nostra cantina. Qualcuno vaneggia che in futuro il mio nome sarà sulla bocca di tutti coloro che verseranno il nostro vino in coppe di cristallo, brindando nei banchetti, nei matrimoni, nelle battute di caccia, sui velieri che attraversano gli oceani. Ma io non desidero questa fama immeritata, sono un monaco che vuole solo “quaerere Deum”, cercare Dio. Un umile lavoratore nella vigna del Signore: è così che vorrei essere ricordato.
Desidero essere sepolto nel coro dell’abbazia dove, messi da parte gli attrezzi da vignaiolo, prendevo in mano il libro della liturgia delle Ore e facevo salire al Cielo il canto di lode insieme ai miei confratelli.
Sia benedetto il nome di Dio
Dom Pierre Pérignon
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[…] Una lettera da un’abbazia francese […]
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