Sono nata a Milano, sono quindi cresciuta mangiando il burro. In casa mia si compravano chili di burro, con il quale si condivano gli spaghetti, si friggevano le cotolette, si rosolavano gli spinaci, si mantecava il risotto, si gratinava la pasta al forno, si cuoceva l’uovo fritto. E naturalmente a colazione e a merenda lo si spalmava sul pane.
Ho sposato un toscano e sono venuta a contatto con una cultura tutta incentrata sull’olio extra vergine di oliva, scelta peraltro raccomandata anche per un corretto equilibrio dietetico. Oggi utilizzo raramente il burro, ma il suo sapore ha per me lo stesso effetto che il biscottino chiamato madeleine aveva su Proust: è sapore d’infanzia.
Tutti noi cresciamo immersi nei sapori della cucina familiare, poi crescendo assaggiamo piatti diversi, magari migliori; viviamo altre esperienze, possiamo lanciarci nell’avventura di sperimentare cucine esotiche anche senza viaggiare, grazie ai tanti ristoranti etnici che vengono su come funghi nelle nostre città. E’ divertente sperimentare nuovi sapori ma ognuno di noi resta attaccato alle tradizioni della propria terra non solo per una questione di abitudine al gusto ma perché il cibo è anche ricordo di una relazione, scambio di affetto, di parole, di discorsi.
L’emigrante che sente nostalgia della sua Patria, che si sente smarrito in un ambiente nuovo e spesso ostile, si rassicura anche mantenendo intatte le sue tradizioni culinarie, come se fossero un ponte che lo tiene legato alle sue origini culturali. Pensiamo alle feste tradizionali e ai banchetti di matrimonio nei quali le comunità etniche mettono in tavola le ricette popolari che si tramandano di generazione in generazione. Il cibo diventa così ricostruzione di legami sociali e forte simbolo identitario.
Non solo la famiglia è fonte di ricordi a tavola: ci sono amici che hanno cucinato per noi piatti squisiti, con amore e passione, e mangiando quei piatti emerge dal passato l’immagine di giornate spensierate, in ottima compagnia.
Oggi corriamo il rischio di perdere questi legami tra le persone e i cibi che ci hanno preparato, perché da un lato siamo sempre più individualisti e dedichiamo sempre meno tempo alla buona tavola, e dall’altro in famiglia si cucina sempre meno. Troppo spesso si consumano cibi pronti, senza avere l’idea di quali siano gli ingredienti. Lo studioso di antropologia dell’alimentazione Claude Fischler parla di “oggetti commestibili non identificati”. Ma il problema non è solo quello della qualità del cibo e del rispetto della salute: se l’uovo fritto nel burro o la torta di mele mi ricordano la Nonna Fausta, se la ribollita toscana e il pollo fritto ricordano a mio marito la Nonna Desdemona, se la torta di riso e i carciofi alla romana sono legati a pranzi luculliani a casa di amici … chi mangia surgelati o polpette industriali di chi si ricorda? C’è una netta separazione tra colui che ha preparato il pasto e colui che lo consuma: non c’è relazione, nemmeno si conoscono. Il cibo non è più ricevuto dalle mani di qualcuno, ma solo preso, acquistato.
Il risultato è quello di considerare il cibo solo come nutrimento oppure di enfatizzare l’aspetto del piacere edonistico, senza alcuna relazione umana con chi ha cucinato per noi, senza impegnarci nella cultura della tavola fatta di affetti, conversazioni, ascolto dell’altro, tempo dedicato a chi amiamo. Il cibo perde il legame con il passato e per questo ci chiediamo che futuro potrà avere.
Quando Proust assaggia la petite madeleine improvvisamente ricorda la zia Léonie che gliela offriva con il thè e commenta: “Quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo”.