Qualche impressione su Starbucks a Milano

Mi è bastato postare sul mio profilo facebook una foto di Starbucks in Piazza Cordusio a Milano e chiedere un parere agli amici, per scatenare subito una ridda di commenti decisi e appassionati, pro o contro la catena americana di caffetterie. Una cosa ho intuito da quei post: Starbucks, o lo adori, o lo detesti. Ora che finalmente ci sono entrata, posso farvi un breve resoconto. Vi posso anticipare che la maggior parte di quello che si dice pro o contro Starbucks (da parte soprattutto di chi nel locale milanese non ci è ancora andato) si riconduce alla fine ad un pregiudizio, positivo o negativo che sia: tutti cioè sono convinti che si tratti di un locale simile a quelli già frequentati negli States o negli aeroporti internazionali, con il classico bicchierone di cartone bianco con l’immagine della sirena verde e la lunga cannuccia.

Non è così, il locale di Piazza Cordusio è una cosa molto particolare, direi unica. Può piacere o non piacere, ma è un locale originale. Innanzitutto, come milanese sono orgogliosa di sapere che il proprietario della catena abbia scelto la mia città per aprire un locale così, il primo in Europa. Ce ne sono uno simile a Seattle e a Shanghai, ma a detta di tutti quello milanese è decisamente il più bello. Forse perché dentro c’è molto Made in Italy?

Una premessa: il mio ideale di caffetteria è il Caffè degli Specchi a Trieste. Entrando da Starbucks sono rimasta quindi un po’ stordita dalle dimensioni e dal bombardamento di esperienze visive, tecnologiche, culinarie, architettoniche e di design. Bisogna entrare con curiosità, senza pregiudizi, e soprattutto prendendosi il tempo per fare un giro con calma tra i vari settori del negozio. E alla fine potrete anche prendere il caffè, ma il bello della visita è che potreste anche non prenderlo. Se il vostro obiettivo è quello di consumare velocemente un espresso italiano al bancone, non andate da Starbucks. Ma se volete immergervi in una esperienza sensoriale sul caffè, la sua produzione e commercializzazione, allora vi consiglio di entrare.

La prima cosa che attira l’attenzione è la gigantesca macchina al centro del locale; è una Scolari (storica azienda di Cinisello Balsamo) per la torrefazione. Il paragone che tutti fanno con le scenografie spettacolari del film “La fabbrica del cioccolato” di Tim Burton è azzeccato, si resta affascinati da quei giganteschi tubi, dalla pala che gira, dai serbatoi sempre in azione.

A sinistra della macchina della torrefazione c’è il bancone di Princi, noto ed apprezzato panificatore, dove si possono acquistare pane, focacce, pizze e dolci. Ci avviciniamo al Natale e sul bancone troneggiano le confezioni di panettoni milanesi. Princi aprirà i suoi punti vendita anche in altri negozi di Starbucks analoghi a quello di Milano: una bella vittoria per l’Italia, che smentisce coloro che parlano di colonizzazione americana. In questo caso mi sembra sia il contrario.

Dopo aver fatto un giro esplorativo, decido di prendermi un caffè. Accanto alle casse ci sono i menu: ne prendo uno e leggo attentamente le varie possibilità. La scelta è difficile. La cassiera, arrivato il mio turno, mi chiede gentilmente se desidero dei suggerimenti: è preparatissima e mi illustra con precisione le varie opzioni. Scelgo uno Starbucks Reserve Barrel-Aged Vanilla latte, una specie di cappuccino, fatto con caffè espresso e sciroppo di vaniglia affinata in botte (tutto ciò che viene affinato in botte evoca in me cose belle e buone). Credevo di avere concluso il difficile processo decisionale, ma la cassiera mi fa una domanda difficile: caffè del Costarica o dell’Etiopia? Parte così un’altra dotta spiegazione sulle caratteristiche dei vari tipi di caffè. L’obiettivo è chiaramente quello di immergere il cliente in un’esperienza conoscitiva. Scelgo il caffè del Costarica.

La cassiera mi chiede se desidero mangiare qualcosa: le ghiottonerie di Princi sul bancone sono una tentazione ma per questa volta resisto. Ultima domanda: “Consuma qui nel locale?” La scelta è decisiva, perché il mio cappuccino viene servito non nei bicchieri di cartone (che per Milano sono marroni) ma in una tazza di porcellana Bone China, molto elegante, color caffè, posta su un grazioso vassoietto. Mi siedo ad uno dei tavolini e sorseggio con calma. Ci sono molti spazi dove potersi accomodare, liberamente.

Proseguo poi il mio tour per il locale, dando un’occhiata anche al design degli ambienti e ai materiali. C’è un grande uso del marmo, a partire dalla bella statua bianca della sirena, simbolo di Starbucks, opera dello scultore Giovanni Balderi, posta all’ingresso. Il banco dove viene venduto il caffè sfuso è sormontato da un divertente tabellone, come quelli degli orari delle stazioni. Scopro che effettivamente è stato realizzato da Solari, l’azienda friulana che ha fornito di tabelloni tutte le stazioni d’Italia. E non è l’ultimo tocco Made in Italy, perché sono in vendita oggetti di design realizzati da ditte italiane: tazze, mug, termos, macchine per il caffè, ceramiche, cartoleria e abbigliamento. Se volete l’affogato al caffè, il gelato è quello di Alberto Marchetti di Torino, Tre Coni (massimo riconoscimento) nella Guida Gambero Rosso.

Vi chiederete quanto ho speso: 5 €. Ho scelto un cappuccino un po’ speciale, se avessi preso un espresso avrei speso 1,80. Decisamente più caro rispetto alla media dei caffè di Milano, gli altri locali non hanno quindi nulla da temere, non almeno in termini di concorrenza sul prezzo. C’è chi ha gridato allo scandalo per questi prezzi, ma la cosa è a mio parere ridicola, nessuno è obbligato ad andare da Starbucks. E poi voi entrereste in una caffetteria solo per farci un giro? Probabilmente no, anche perché il barista ad un certo punto, insospettito, vi chiederebbe cosa volete. Da Starbucks invece si può fare una visita anche senza consumare, e ne vale la pena perché si vive comunque un’esperienza su tutto quello che ruota intorno al mondo del caffè.

Quello che mi chiedo è se sul lungo termine il locale si manterrà sulla cresta dell’onda o subirà un calo di interesse. Come diceva Lucio Battisti, lo scopriremo solo vivendo. Il rischio è quello di avere adesso molti avventori incuriositi, che poi si orienteranno verso i soliti bar, meno costosi e più veloci nel servizio, meno caotici e più intimi. Il wi-fi gratuito ormai è abbastanza diffuso, non è più un asso nella manica per Starbucks.

Ci voglio tornare, voglio provare il marocchino, che deve essere una leccornia. Sono lieta di avere visitato questo luogo diverso dal solito, fiera come milanese di sapere che in Europa non c’è un altro locale così, felice delle tante possibilità che offre la mia città. Sono una persona curiosa e aperta alle nuove esperienze, ma rimango della mia idea: il mio modello è e resta il Caffè degli Specchi di Trieste!

 

 

2 commenti su “Qualche impressione su Starbucks a Milano

  1. mario.manzin@libero.it ha detto:

    “Se no ti me vedi, vol dir che son ai Speci”.

    ciao

    papà

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