Il carciofo alla giudìa: kosher o non kosher?

Il dubbio ha scatenato una dura polemica. Ecco i fatti: secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz, i rabbini israeliani ritengono che il carciofo preparato in base alla ricetta romana sia un piatto proibito, e ne vogliono vietare la preparazione in Israele, dove alcuni ristoranti kosher lo mettono nel menù. Per la comunità ebraica romana invece la questione non ha alcun fondamento, perché il piatto è realizzato evitando qualsiasi rischio di impurità.

Ma cosa sono i carciofi alla giudía? Sono carciofi fritti, realizzati secondo una ricetta tradizionale del ghetto ebraico della capitale. Si utilizzano rigorosamente i carciofi cimaroli (detti anche mammole), coltivati nel Lazio. Questo tipo di carciofo è tondo, particolarmente tenero e, soprattutto, privo di spine. Grazie a quest’ultima caratteristica i carciofi alla giudía, una volta cotti, possono essere consumati integralmente senza scartare nulla.

Proprio per questo, i rabbini israeliani sostengono che nei carciofi potrebbero essere presenti piccoli vermi o parassiti, che renderebbero il cibo impuro, non in regola con le norme alimentari della religione ebraica. La soluzione sarebbe quella di aprire il carciofo, controllandone l’interno, ma questo impedirebbe di realizzare la ricetta tradizionale alla giudìa, che deve essere fatta con il carciofo intero.

Certamente, anche senza seguire norme alimentari ebraiche, ci fa un po’ impressione pensare che nel piatto ci siano vermi, ma se fino ad oggi nessuno si era posto il problema è anche grazie alla particolarità del carciofo “mammola” (che non si trova in Israele) che ha una corolla così stretta da impedire l’ingresso e l’annidarsi dei vermi. Inoltre, è pulito bene mettendolo a bagno nell’acqua limonata e la frittura nell’olio bollente elimina eventuali parassiti.

In conclusione, nella comunità ebraica di Roma nessuno è disposto a rinunciare al carciofo alla giudìa.

Noi facciamo un po’ fatica a comprendere la polemica, ma dobbiamo pensare che per il popolo d’Israele i precetti alimentari sono un mezzo per portare il sacro nel quotidiano. La tavola per un ebreo è un altare sul quale sono posti gli alimenti, scelti con cura secondo i precetti della Torah. La sacralità del momento conviviale è espressa anche dalla preghiera prima e dopo il pasto, obbligatoria per tutti. Non si comincia fino a quando non si è seduti tutti insieme ed è stata recitata la preghiera, e si conclude il pasto con la preghiera di ringraziamento. Una buona abitudine, soprattutto se pensiamo alla trascuratezza che si trova oggi in tante case, dove si mangia quando capita, a mano a mano che si arriva a casa, senza un orario comune, senza comprendere il valore comunitario di una bella tavola condivisa.

Ma resta il fatto che certe polemiche sugli alimenti leciti o proibiti sono per noi di difficile comprensione. Ogni civiltà, ogni comunità ha un suo modo di mangiare, ma se qualcuno chiedesse: «Come mangiano i cristiani? Quale è la caratteristica della loro tavola?» si può rispondere che non esiste un modo di mangiare “cristiano”, per il semplice fatto che i cristiani mangiano tutto e con tutti. Lo ha insegnato Gesù: «Non capite che tutto ciò che dal di fuori entra nell’uomo non può contaminarlo?» e l’evangelista Marco commenta: «dichiarando così puri tutti i cibi». (Marco 7, 18-19).

Ai cristiani è stata data la libertà di mangiare quello che vogliono, lasciandosi alle spalle la tradizione ebraica. I cristiani devono mescolarsi con tutti i popoli, devono annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra, dunque non possono più seguire quelle rigide regole alimentari che di fatto impedirebbero loro la frequentazione di altri popoli. Un progetto di evangelizzazione che ha portato conseguenze anche a tavola, e che ha plasmato la nostra cultura gastronomica.

 

 

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