Per la rubrica Distillati di sapienza, ecco un brano di Massimo Montanari, docente di storia dell’alimentazione e autore di molti volumi di storia e cultura del cibo e della tavola. L’autore ci racconta che la cucina è il luogo ideale dove si può fare filosofia e stimolare l’intelligenza.
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Il risposo della polpetta
Qualche sera fa, in cucina, facevamo le polpette. Carne bollita di manzo, cardi lessati, parmigiano, pangrattato, due uova, sale, pepe. Terminato l’impasto, modelliamo le polpette e le sistemiamo ben bene su un piatto. A questo punto Marina raccomanda: «Ora, prima di cuocerle, le lasciamo riposare un paio d’ore, così si rassodano e si amalgamano bene.»
Ho pensato che il riposo delle polpette assomiglia molto a quello che succede nella nostra mente quando elaboriamo le idee. Le idee sono il risultato di esperienze, incontri, riflessioni, suggestioni: tanti “ingredienti” che si mettono insieme e poi producono pensieri nuovi. Ma prima che ciò accada è utile far riposare quegli ingredienti, dargli il tempo di depositarsi, amalgamarsi, rassodarsi. Il riposo delle polpette è come il riposo dei pensieri: dopo un po’ vengono meglio.
La cucina non è solo il luogo dove si progettano sopravvivenza e piacere. La cucina è anche un luogo ideale per allenare la mente. Osservare i processi di cottura, le trasformazioni della materia sotto il calore del fuoco, le imperative regole degli accostamenti (alcune cose stanno bene insieme, altre no), l’ordine e la sequenza dei gesti (fatti in un certo ordine e con un certo ritmo producono risultati eccellenti, fatti al contrario provocano disastri, come quando la maionese impazzisce) può aiutarci a riflettere sulle regole che governano l’esistenza quotidiana, su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto con il mondo, con gli altri, con noi stessi.
Cucinare non è una pratica minore, ma stimola l’intelligenza. Lo sostenne anche una celebre donna del Seicento, Suor Juana Inès de la Cruz, la maggiore poetessa messicana dell’Età barocca, che nella sua orgogliosa affermazione del ruolo femminile (che le procurò non pochi disagi nella società maschilista del tempo) rivendicò la dimensione intellettuale del lavoro in cucina, paragonandola alla riflessione filosofica e anzi dichiarandone la superiorità. «Che cosa potrei raccontarvi», scrive suor Juana «dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo un uovo che si rapprende e frigge nel burro o nell’olio, e al contrario si spezza nello sciroppo; vedo che, affinché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che con lo zucchero possono essere montati separatamente ma mai insieme.» Osservazioni assai più profonde di quanto all’apparenza non sembrino, sicché – conclude provocatoriamente suor Juana – «si può benissimo filosofare mentre si prepara la cena. E io dico che se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più.».
Un’idea a cui mi sono particolarmente affezionato, che ispira spesso il mio lavoro di studioso e che cerco di comunicare anche nelle sedi meno accademiche è che le pratiche di cucina (e in senso lato tutto ciò che ha a che fare con il cibo: modi di produzione, tecniche di trasformazione, modalità di consumo, ritualità conviviali) non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale ed intellettuale. La cucina può essere così assunta come metafora della vita – a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina.
[Massimo Montanari “Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo”, ed. Laterza, 2017.]
Sull’argomento, potete rileggere anche il mio post: “Se Aristotele avesse cucinato! Come filosofeggiare ai fornelli”